Il conte Ugolino
nel buio della Torre

“Il più sublime e patetico soggetto, che sapesse mai immaginare il divino Alighieri”: così Giuseppe Parini, insieme ad Alfieri e a Foscolo, alle origini della riscoperta dei Dante e della fortuna figurativa della Commedia, aveva definito l’Ugolino nella torre, uno dei temi più rappresentati nell’Ottocento. Dopo il Conte Ugolino del siciliano Giuseppe Errante (non più rintracciato), che fu esposto nel 1805 all’Accademia di Brera, tra le prime prove pittoriche dedicate a questo tema in ambito lombardo, seguì la tela (perduta) di Giuseppe Diotti per Giovanni Montani di Casalmaggiore, realizzata nel 1817.

L’interesse dell’artista per l’episodio risaliva probabilmente alle giovanili frequentazioni con gli ambienti d’avanguardia romani, dove il culto del sommo poeta aveva conosciuto una rapida affermazione grazie alle ricerche sperimentali degli artisti nordici Füssli, Carstens, Köck, condivise con Felice Giani, Giuseppe Bossi, Pelagio Palagi. Ma fu una commissione del conte bresciano Paolo Tosio a consentire a Diotti di tornare sul tema nel 1831, con un’opera destinata a coinvolgere emotivamente lo spettatore con il suo portato di pietà e di dolore, ma mantenuta entro i riferimenti della tradizione classica, come richiesto dal committente. Nella fitta sperimentazione dell’artista sul soggetto, rientrano anche la versione preparatoria (oggi, Cremona, Museo Civico Ala Ponzone) e quella più tarda, di più intensa carica emozionale, che traduce il verso dantesco: “ambo le man per lo dolor mi morsi” presso l’Accademia Carrara di Bergamo. Punta dritto all’apice drammatico della storia il pavese Pasquale Massacra, non solo nella scelta del momento rappresentato, ma soprattutto nella condotta pittorica franta, che dissolve ogni dettaglio narrativo.


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